Il concetto di Neurodiversità
Quando si parla di Neurodivergenza occorre partire da un presupposto fondamentale: ogni persona nel mondo è neurodiversa, possiede, cioè, caratteristiche neurologiche uniche. È alla luce di questa diversità che è possibile comprendere meglio la distinzione tra neurotipici e neurodivergenti, dove i primi – al netto dell’unicità individuale – presentano uno sviluppo neurologico comune alla maggioranza, mentre i secondi, per uno o più aspetti considerati essenziali, ne divergono.
Quando si parla di “neurodiversi” ci si riferisce, generalmente a tutte le persone che si posizionano nel variegato spettro autistico, e ultimamente anche a chi soffre di dislessia, disprassia, discalculia, sindrome di Tourette o di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (adhd).
È stata la sociologa australiana, con una diagnosi dello spettro autistico, Judy Singer, a coniare alla fine degli anni Novanta il termine “neurodiversità”, come una sorta di corrispettivo neurologico del concetto di biodiversità, riconoscendo, così, l’esistenza di una naturale variazione nella funzione cerebrale, di un modo diverso di guardare e percepire la realtà, di vivere le relazioni, di sentire e abitare il mondo.
«La neurodiversità può essere altrettanto cruciale per la razza umana quanto la biodiversità lo è per la vita in generale. Chi può dire quale forma di cablaggio si dimostrerà migliore in un determinato momento?»
Il paradigma della neurodiversità sostiene che la condizione autistica sia semplicemente una specificità umana o una differenza nei modi di socializzare, comunicare e percepire, e che non siano necessariamente svantaggiosi (Jaarsma e Wellin, 2012).
Neurodivergenza e lavoro
La neurodivergenza è complessa fin dalla sua diagnosi, non ha contorni netti e il più delle volte è persino difficile da riconoscere. Per questo nelle politiche di DE&I resta un tema marginale o sottovalutato. Spesso i lavoratori e le lavoratrici neuroatipiche decidono di non rivelare al datore di lavoro o ai colleghi la propria condizione per paura di essere giudicati od ostacolati nella carriera. Questo alimenta un circolo vizioso che può condurre a trattamenti iniqui, mancanza di opportunità e, persino, alla fuoriuscita dal mercato del lavoro.
Secondo l’Harvard Business Review, il tasso di disoccupazione tra le persone neurodivergenti può raggiungere l’80%, una percentuale allarmante che ritroviamo anche in uno studio condotto dal Parlamento Europeo con riferimento alle persone autistiche. Secondo i dati, infatti, sarebbero meno del 10% le persone nello spettro inserite nel mondo del lavoro, questo vale anche per chi ha un livello di istruzione superiore alla media. Inoltre, l’indagine europea sottolinea come si tratti spesso di lavori precari, saltuari o sottopagati.
Per valorizzare appieno gli individui che si identificano come neurodiversi, le aziende dovrebbero prima di tutto investire in una migliore conoscenza della neurodivergenza. Secondo una ricerca sulla neurodiversità sul luogo di lavoro, condotta dalla società di consulenza americana Eagle Hill Consulting, infatti, solo il 22% dei dipendenti è consapevole di lavorare con un individuo neurodivergente e solo il 16% dei dipendenti ha dichiarato di aver partecipato a conversazioni formali sulla neurodiversità all’interno della propria organizzazione, nonostante il 56% abbia espresso interesse per una formazione sulla gestione dei dipendenti neurodivergenti.
Altrettanto cruciale, poi, è il coinvolgimento dei dipendenti neurodiversi nella progettazione e attuazione di specifiche strategie di inclusione. Sempre secondo lo studio sopracitato, il 69% dei dipendenti segnala che i loro datori di lavoro non cercano consigli e contributi dai dipendenti neurodivergenti, durante la progettazione degli spazi in ufficio, ad esempio, o l’organizzazione dei team.
La Neuroinclusione conviene
Per anni è stato insegnato ai manager in generale e all’HR in particolare, di assumere persone non solo per le skill di competenza ricercate ma anche per le cosiddette softskill, e tra queste soprattutto quella di sapersi relazionare. Un candidato con un bel sorriso stampato in faccia, dai modi cordiali, sicuro di sé, che guardi negli occhi il proprio interlocutore, ha sempre avuto la meglio rispetto alle persone chiuse, introverse, poco inclini ad aprirsi agli altri. E’ evidente che con queste pretese si alza un muro insormontabile per chi “ragiona in modo diverso”. Anche in questo caso la bellezza la troviamo al di fuori della nostra “comfort zone”, andando oltre ciò che ci mette a nostro agio.
D’altra parte, competere in questo mondo velocissimo e ultraconnesso, richiede il superamento di alcune nostre barriere mentali. Il rischio, altrimenti, è quello di perderci un Bill Gates, uno Steve Jobs, un Elon Musk: tutte persone nello spettro dell’autismo, che grazie al loro ragionare differente hanno creato imperi high tech (diciamoci la verità: probabilmente una persona neurotipica neanche ci arriva a pensare di costruire un razzo “riutilizzabile”, capace cioè di tornare alla base da solo, una volta lanciati i satelliti nello spazio, al fine di abbassare i costi). Visto che quindi la neuroinclusione è ancora controculturale, e che rischiamo di perderci dei talenti nascosti, abbiamo bisogno di professionisti che ci accompagnano in questo necessario percorso.
Le caratteristiche di una persona neurodivergente si possono riconoscere già in fase di colloquio, un recruiter può pertanto allenare la propria capacità di osservazione e considerare una serie di skill in più, rispetto alle persone cosiddette neurotipiche.
Tendono a non guardare negli occhi, nessun sorriso di troppo, si perdono quando si pongono domande “aperte” che non riguardino esclusivamente il lavoro, non ridono alla battuta. In ufficio preferiscono chiudersi al mondo, indossando le cuffie tutto il giorno e quando una cosa non gli torna, perché ambigua, insistono fino alla noia per chiarirla. Non sanno vendersi, se una cosa non la sanno lo dicono e non accettano compromessi di questo tipo. Non fanno pause, in alcuni casi è meglio rinunciare ad invitarli a prendere un caffè, perché potrebbe non far loro piacere.
Il punto è che tutte queste persone spesso e volentieri sono degli eccellenti professionisti: programmatori, testers, analisti, architetti del software, sistemisti, con una incredibile capacità di concentrazione. Portano in azienda, soprattutto in quelle hi-tech, un valore inestimabile, un vero e proprio vantaggio competitivo.
Molte aziende multinazionali, si sono accorte di questo grande valore inespresso e hanno introdotto specifici programmi di neuroinclusione che stanno portando ad eccellenti risultati. Parliamo di SAP, HPE, IBM, Microsoft. SAP è l’azienda pioniera in questo campo ed ha deciso di portare, entro il 2020, il numero di persone “neurodiverse” ad almeno l’1% della sua forza lavoro: “grazie al lavoro di una persona asperger”, riporta SAP, “siamo riusciti a risolvere un problema che ci ha permesso di risparmiare qualcosa come 40 milioni di dollari”.
Infine l’azienda tedesca, leader nel mondo di software gestionale, ci fa sapere che all’inizio pensavano di impiegare le persone con autismo soltanto per attività di testing vista la natura ripetitiva a loro cara, ma poi nel tempo si sono accorti che potevano aggiungere un grandissimo valore anche in altri settori, come il product management e persino nel customer care, sfatando il luogo comune che li vedrebbe in difficoltà nelle relazioni sociali con le persone. Escluse queste poche aziende illuminate, rimane però la difficoltà degli asperger di farsi assumere, perché viste le loro difficoltà “relazionali” non riescono a passare il colloquio, a causa di una inadeguatezza del management.
Cosa possiamo fare?
Viviamo in una società che misura le nostre performance fin dalla nascita, nella disperata ricerca dei valori standard. Fin da piccoli rientriamo nelle curve dei quantili, quartili e percentili, ossessionati come siamo di essere nella norma.
Probabilmente per poter riuscire ad apprezzare le intelligenze di tutti, prima ancora di pretenderlo dalle aziende, dovremmo uscire da questa dittatura dello standard, senza nulla togliere agli utili strumenti statistici: sarà questa la vera neuroinclusione.
Anche perché abbiamo un disperato bisogno di loro, della loro granitica logica (che ci ricorda, ad esempio, quanto sia importante preoccuparci del nostro unico pianeta) e della loro cura per i dettagli, per non lasciare nulla al caso, in una società sempre più tecnologicamente deterministica.
Tutta questa attenzione ci torna indietro con gli interessi: imparare a relazionarsi con loro ci aiuta anche con gli altri, perché sono sempre i limiti che ci spingono a migliorare, nella vita personale come in azienda.